lunedì 26 novembre 2012

Miti platonici. #Gige e la giustizia "invisibile".

I miti platonici sono preziosi racconti che esprimono, attraverso immagini, contenuti filosofici e metafisici, portandoci al di là della finita comprensione umana.

Oggi io e babyP abbiamo letto il mito di Gige, che si trova nella Repubblica, dialogo dedicato al tema della giustizia.

Gige era un pastore al servizio del re della Lidia. Un giorno mentre pascolava le pecore si aprì una voragine nel terreno e lui, impavido, scese a vedere cosa c'era: un cavallo di bronzo e, al suo interno, un uomo morto che indossava solo un anello d'oro. Gige s'intascò l'anello. Il pastore provò a girare verso di sé il gioiello, e divenne invisibile. Poi lo girò in senso opposto, e tornò visibile. 
Sfruttando il potere magico dell'anello, s'intrufolò nella reggia, sedusse la regina, insieme a lei uccise il re, e conquistò reggia, regina e corona. 


Magritte, Le Pèlerin, 1966.


Chiunque, giusto o ingiusto che sia, commetterebbe ingiustizia se avesse il potere magico di divenire invisibile, e quindi non essere giudicato.
La giustizia è dunque solo una convenzione sociale, non un valore naturale dell'uomo, nata per porre un argine alle inevitabili faide tra uomini.
Chiunque, nel suo cuore, ritiene più vantaggiosa l'ingiustizia e, se non fosse visto (e dunque non punito), ruberebbe, trufferebbe, mentirebbe senza esitazione.

Platone contesta questa visione individualistica e amorale, e sostiene che la giustizia è un
valore assoluto che nasce dalla supremazia della ragione sull'irrazionalità, sia nell'animo umano sia nello Stato.

Il mito di Gige secondo babyP, ovvero cosa farebbe se fosse invisibile.


BabyP gira l'anello. E pensa di essere diventata invisibile.
O perlomeno che io lo sia diventata.

Fa il bagnetto ai suoi peluche. Schizza ovunque.
Apre l'acqua bollente.

Snobba le letture filosofiche in favore di letteratura dozzinale.
E apprezza.


Prende il cellulare, e finge di chiamare: "Ponto, ponto! Ciao, ciao!".
E manda un messaggio vuoto alla santanonna.


Si fa mettere le mollette che non le metto mai.
Avesse potuto si sarebbe fatta anche i buchi alle orecchie,
il piercing all'ombelico e un tribale sulla caviglia. 
S'infila gli occhiali da sole in casa e me li fa indossare.
Tipo le starlette che in albergo hanno paura dei paparazzi
.




Piove sul giusto e piove anche sull'ingiusto; ma sul giusto di più, perché l'ingiusto gli ruba l'ombrello. (Lord Bowen, giudice inglese del XIX secolo).



giovedì 22 novembre 2012

Schopenhauer e l'amore.

Schopenhauer è uno dei filosofi che mi piace di più. 


Nella prima metà dell'Ottocento dominava la filosofia hegeliana: lui la detestava e la criticava apertamente. Fissava le sue lezioni all'università di Berlino in concomitanza di quelle - affollatissime - di Hegel, e si ritrovava a parlare ai muri. 


Che ci sia Hegel a fare lezione nell'altra aula?

Non godeva di popolarità, dunque. 

Era pessimista quando tutti i suoi colleghi proponevano filosofie allegre e consolatorie. 
La nostra essenza è la volontà di vivere, cieca e irrazionale, che ci spinge a continuare ad affannarci alla ricerca di qualcosa, nonostante tutto sia solo dolore e noia e bisogno. Il nostro è il peggiore dei mondi possibili.

Proponeva, per liberarci dalla sofferenza cosmica, l'ascesi, la massima indifferenza a tutto, il puro nulla. E, intanto, lui predicava bene e razzolava male. Altro che digiuno e castità: era goloso, litigioso, taccagno, egoista, intrecciò diverse relazioni puramente sessuali con donne. 

Disprezzava gli uomini, ma amava gli animali. In particolare, il suo barboncino che si portava come commensale al ristorante.


"Il mio cane è trasparente come il vetro" 
(Schopenhauer)


Fu il primo filosofo occidentale a studiare e importare concetti dalla sapienza orientale iniziando una tendenza che si sarebbe involuta per scopi commerciali.

La concezione più sconvolgente di Schopenhauer è quella sull'amore, "interesse della specie", "demonio maligno".
L'amore non è nient'altro che l'impulso della volontà che, attraverso apparenze ingannatrici (teneri sentimenti, parole dolci, sguardi rapiti), realizza il suo scopo più alto: la generazione di un nuovo essere. Perpetuare la specie significa per il filosofo rendere eterna anche la sofferenza. 

Ancora più sconvolgente è stata la reazione di una classe interamente maschile, misogina, dove l'amore fa rima con sesso (romanzato, iperbolizzato, mitizzato) e che trascorre il tempo a scrivere volgarità come commento alle citazioni romantiche di Facebook delle coetanee. 
Loro si sono scandalizzati. E hanno iniziato a parlare di sentimenti, citare Baglioni (Baglioni?), affermare con sicurezza che loro si sposeranno, e per amore. 

E, così, ci siamo tutti liquefatti come miele scaldato in un pentolino con un goccio d'acqua.

Io, ormai fatta di miele, aggiungo che, da quando il "genio della specie"
ha sconvolto e ingarbugliato tutto per far arrivare BabyP,
il mio è diventato il migliore dei mondi possibili.




venerdì 16 novembre 2012

Cogito, ergo sum?

Cartesio è passato alla storia come fondatore della filosofia moderna, ma era un tipo solitario, timido, pauroso. E pure cagionevole di salute tanto che, dopo essere stato prelevato da una nave da guerra della regina Cristina di Svezia, morì di polmonite a Stoccolma a causa delle levatacce imposte dalla regina per impartirle lezioni filosofiche (veniva svegliato alle 5: devo iniziare a preoccuparmi?).





Non avrebbe mai immaginato, insomma, di scrivere lo slogan filosofico più noto (eccetto che ai miei studenti): "cogito, ergo sum". 


"BabyP, dov'è la res cogitans?"

La vera rivoluzione stava nel fondamento del suo slogan: il dubbio. 
Bisogna dubitare di tutto: guardo il mondo, e mi appare fasullo. Non trovo un senso alla vita. Tutto è chimera.
Dubito, dubito, mummble, mummble, e arrivo però a un principio indubitabile, sul quale rifondo la mia visione. 
Il dubbio di Cartesio è metodologico. A forza di essere sommerso dai dubbi, mi rendo conto dell'unica certezza in mio possesso: sono un essere dubitante, ovvero pensante. 
Io sono pensiero, libero e consapevole, e questa è la sostanza che mi distingue dal resto del creato. Io penso, e agisco nel mondo in quanto dotato di pensiero.

Che sollievo fondare una filosofia sul dubbio.

Diventare mamma mi ha reso molto dubbiosa, ergo molto pensante, a discapito delle apparenze.




Dubito di dover continuare a bollire ogni mattina verdure biologiche, sane e insipide.

Dubito che quella faccia riflessa sul vetro del forno sia la mia: è raggrinzita e rassicurante come una torta di mele.

Dubito di far crescere babyP in una città che sa di pelle di sedili di treno e kebab e vermouth. Un giorno abiteremo su quell'isola che sa di zolfo e capperi e malvasia, e, forse, ci annoieremo a morte.

Dubito di essere l'unica mamma al mondo che lavora, passa il mocio vileda intorno, e non sotto, ai mobili, cucina bistecchine coi bordi raggrinziti, e sorride come la protagonista di una soap opera.

Dubito di avere doti creative: compro veline colorate, animaletti di feltro, colle atossiche che rimangono appiccicate al sacchetto, insieme allo scontrino.

Dubito di riprovare l'ebbrezza di quei baci, quelli bagnati e molli dei quindici anni, e quelli da uccellino che mi dà col suo becco babyP.

Dubito di smettere di immaginare, senza rimpianto, un'altra vita.

Dubito di aver vissuto serate con le amiche, che se mi andava di uscire a mezzanotte, mi truccavo, infilavo il cappotto, e uscivo.

Dubito di riuscire a programmare tutto, a che ora potrò finire il libro che ho sul comodino, che umore avrà babyP al risveglio, cosa inventerò domani al lavoro per poter uscire un'ora prima.

Dubito di rientrare in quei pantaloni di pelle nera, da biscia, taglia 40.


Dubito che siano le quattro del pomeriggio perché mi sembrano le 11 di sera.

Dubito, e dunque penso. È già qualcosa. 
Penso, e dunque sono: una madre.
Riparto da qui.






giovedì 8 novembre 2012

Il tempo è un bastardo.

Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan ha vinto il Pulitzer per la letteratura 2011: è un romanzo in movimento, ambientato in tempi cronologici sfalsati (abbondano i flashback ma pure dei curiosi flashforward), che si snoda attraverso racconti da parte di più voci narranti che vanno a comporre il quadro dei due protagonisti, Bennie, discografico di successo, e Sasha, sua assistente dal passato irrequieto. 
Sembra complesso, ma non lo è: proprio quando pensi di aver perso il filo ti accorgi, invece, di aver aggiunto un nuovo tassello alla storia.

Diversi critici, e pure babyP, sono stati colpiti dalla modalità comunicativa tramite power point: in effetti, un capitolo di slides all'inizio spiazza un po', ma poi risulta essere fluido e denso come il resto della narrazione. 

La figlia dodicenne di Sasha condensa su slides il suo punto di vista sul mondo. 
Una è dedicata a una foto di sua mamma da giovane, in pieno periodo turbolento.



Sasha nella foto
La faccia è sottile e graziosa, come il musetto di una volpe.
I capelli sono rossissimi e tutti arruffati.
E' per strada con un po' di persone, tra cui la rockstar (prima che ingrassasse).
La didascalia dice: "Davanti al Pyramid Club, primi anni '90".
Con la bocca mamma sorride, ma gli occhi sono tristi.

Non faccio che pensarci: guardo le mie foto di fine anni '90 e immagino babyP dodicenne che mi scruta, mi giudica, confronta quella ragazza con quella che sono diventata (e il tempo, lo diceva anche Bergson, è un "concetto bastardo"). 


Foto d'archivio a cui potrebbe accedere babyP.


La slide di babyP.


Quello che spero è che concluda con le parole della ragazzina del romanzo, perché coincidono col mio desiderio più forte: essere una persona che le piacerebbe conoscere. Oggi, e pure tra 11 anni.